I brutti quartieri di una grande città fanno quasi sempre paura. Ma a questa paura si finisce per abituarsi. Quando mi trovo a passare tra quei palazzi brutti e violenti, ormai senza più rendermene conto, abbasso gli occhi e tiro via. Al contrario, i bellissimi quartieri del centro storico mi sono familiari, mi rassicurano a tutte le ore del giorno e in tutti i mesi dell'anno. Tranne che d'agosto, specialmente di notte.
Nelle notti d'agosto il centro storico diventa addirittura terrorizzante. Gli antichi fregi senza luci, le lunghe file dei negozi spenti, le grandi pareti dei palazzi dalle finestre chiuse e dai portoni sbarrati acquistano di colpo l'immagine di una persona amica di colpo stravolta dalla pazzia, pronta a saltarti addosso e a sbranarti senza pietà.
Domenica sera, dopo aver passato tutta la giornata in casa a finire un lavoro che mi aveva costretto a rimanere in questa città abbandonata nelle grinfie del caldo, uscii a piedi, a caccia di un ristorante.
Volevo fare due passi per sgranchirmi la schiena e anche perché avevo voglia di vedere qualche faccia vivente. Sono infatti un appassionato di facce: mi piace guardarle e immaginare da quali ambienti vengono fuori, quali pensieri passano per quelle teste; mi piace figurarmi la casa e la vita delle persone sconosciute. Mi resi conto che era domenica perché nel raggio di un chilometro almeno da casa non trovai aperta nemmeno una pizzeria. Mi perdevo per le strade attratto dalle luci lontane e nel camminare, quasi automaticamente, tornavo con i pensieri al lavoro che avevo lasciato. Così, dopo un po' di tempo, risvegliandomi dal torpore, mi resi conto di essermi perso. Mi muovevo nelle vicinanze del centro storico tra palazzi primi Novecento, quasi tutti uguali: un quartiere con pochi negozi e dalla fioca illuminazione. Le luci lontane si rivelavano puntualmente per scritte pubblicitarie rimaste inutilmente accese.
Intanto già accusavo un po' di stanchezza alle gambe. Ma quel che più sentivo e mi cresceva dentro era una strana tensione, forse una paura. Tutti quei palazzi spenti, quegli appartamenti deserti accendevano in me impercettibili e irrazionali istinti vandalici, quasi delinquenziali. Mi passò per la testa un'improvvisa fantasia. Immaginai di imbattermi, proprio all'angolo della strada, in una bellissima ragazza, come me sperduta nella città notturna e afosa. Avrei resistito a non fermarla per un braccio?
Mi tornò in mente un raccontino che lessi tanti anni fa. Vi si narrava proprio di un uomo sperduto nella notte che incontra una ragazza bellissima, avvolta in un abito bianco, di veli, un corpo magnetico, due occhi di smeraldo. L'uomo la fissa incredulo e la ragazza lo invita a seguirlo per quelle stradine medievali: qualche ramarro ai muri, qualche topo che fugge. La ragazza entra in una vecchia casa e comincia a salire le scale girandosi ogni tanto con un sorriso. Apre la porta di un appartamento sontuoso e cadente, tappezzato di arazzi e damaschi. Lui, a piccoli passi, le va dietro. La fanciulla gira l'interruttore della luce e nel soffitto di una grandissima camera da letto s'accende un lampadario di cristallo. Il letto è grande, a baldacchino. Lei sposta le lenzuola e si lascia scivolare su quelle sete. Guarda l'uomo e lo invita a sdraiarsi accanto a sé. Lui si toglie le scarpe, la giacca e si allunga al fianco di quella magnifica creatura odorosa di giglio. Stanno per baciarsi quando l'uomo, accecato dal lampadario, si alza per andare a spegnere la luce. Ma lei lo blocca. A spegnere la luce vuol pensarci lei. Infatti allunga il braccio. Il braccio s'allunga, s'allunga. S'allunga ancora. Come un serpente. La sua bianchissima mano attraversa tutto il pavimento, s'arrampica sulla parete, fino a quando il dito indice spegne la luce e fa il buio. Il racconto finiva in questo buio pieno di sinistri presagi.
Trovai finalmente una trattoriola striminzita, all'aperto. Non c'era nessun altro avventore. Mi sedetti e, per non rischiare, ordinai prosciutto e melone e poi del formaggio. E mentre aspettavo, dal portone lì accanto, uscì una coppia: probabilmente moglie e marito. Si sedettero davanti a me. Io vedevo lui di spalle e lei di fronte. Era una giovane signora, di classe media, vestita con un abitino soffice, scuro, e le scivolava tra le gambe che teneva discoste. Mi inquietò subito il suo volto: era tumefatto, un labbro gonfio, uno zigomo arrossato e intorno al collo una rete di graffi ancora arrossati e qualche livido. Ma sotto quei segni c'era senz'altro una donna bella. I suoi occhi mi vennero subito addosso, erano profondi e neri, ma luminosi. Il marito, o chi sa chi, le stringeva teneramente le mani e lei gli sorrideva con dolcezza. Di lui vedevo un po' di profilo e la camicia dozzinale da cui venivano fuori due braccia piuttosto pelose ma non robuste. Ordinarono la cena e, aspettando, si scambiarono qualche moina.
Solo che lei, sempre più sfacciatamente, baciandogli le mani, mi puntava gli occhi addosso con un sorriso ammiccante. E anche mentre mangiavano lei non faceva che fissarmi muovendosi sulla sedia come una gatta in amore. Mi sentivo aggredito, quella situazione era assurda. Tuttavia non potevo sottrarmi alla sfida. Più di una volta fui addirittura io a richiamare i suoi sguardi, con un tintinnio del bicchiere o lasciando cadere in terra una posata. E lei sembrava avere sempre più caldo, strofinava le mani sulla gonna. Non riuscivo a capire come mai quell'uomo non si accorgesse del nostro muto dialogo. Era perso in lei, tenerissimo quando le accarezzava i capelli o il bel nasino.
I due erano sicuramente scesi a mangiare dopo che per ore si erano tormentati d'amore, nel sudore di una camera piccola e male ammobiliata, mentre nella strada sotto casa scendeva piano piano il buio. Lui l'aveva picchiata e ora, quasi a chiederle perdono, se la teneva buona, la sfiorava con delicatezza, le baciava le mani e i polsi.
Pagammo il conto quasi nello stesso momento, quell'uomo prima, io dopo. Ma né loro, né io ci alzammo. La donna s'era fatta ancora più audace: adesso guardava solo me e mi indicava l'interno della trattoria. D'improvviso si alzò e guardandomi sparì nel locale. Il cuore aveva cominciato a battermi forte. Non sapevo che fare. Fissavo l'uomo che beveva la sua birra. Stavo per alzarmi, per seguirla. Ma non ne ebbi la forza.
Dopo qualche minuto, il mento alto, tornò la donna e si risedette al suo posto. Non mi degnò di uno sguardo. Io abbassai gli occhi sul tavolo. Decisi di andarmene. Ma quando stavo per scostare la sedia, lei, il torace gonfio, un sorriso cattivo, mi mostrò la lingua. A questo punto l'uomo si girò di colpo verso di me: sul suo volto si stampò d'improvviso una maschera crudelissima. Gli occhi gli si infiammarono. Tornò a voltarsi verso la donna e la colpì con uno schiaffo sonoro. Lei scoppiò a piangere. Lui allora si alzò e la trascinò via con la forza, picchiandola duramente. Stavo per intervenire. Mi alzai, ma non mi mossi. Li vedevo tornare verso il portone da cui erano usciti e capii che in quei loro rituali io non dovevo entrare più. La mia parte l'avevo involontariamente recitata fino in fondo. Per tutta la cena non ero stato che lo zimbello nelle mani di quei due strani innamorati. M'avevano tirato dentro le loro beghe. E ora me li immaginavo rientrare nella piccola camera accaldata, dove avrebbero continuato il loro complicato gioco d'amore.
Tornando a casa le vie del centro mi apparivano ancora più sinistre. Per un istante pensai persino che dietro le mille finestre spente erano venuti a passare l'estate fantasmi sudati e ridanciani. Li vedevo accendere le lavatrici, far girare i frullatori, mettere in funzione televisioni e giradischi, frugare nei cassetti. Li vedevo orgiasticamente danzare e ubriacarsi con le mezze bottiglie di vino rimaste nei frigoriferi. Mano a mano che mi avvicinavo alla mia strada sentivo placarsi quell'inquietante spiritello criminale che si era impadronito di me. Non vedevo l'ora di andarmene a letto, chiudere gli occhi e finire questo mio racconto nel buio dei miei sonni sinistri.