"Orient-Express", versione H, 1997, edizione Einaudi
Si era seduta, rivolta verso l'ingresso, e aveva ordinato il pane e l'acqua minerale. Lo aveva fatto per apparire disinvolta e invece manifestava un certo nervosismo. Quando Vittorio aveva telefonato, lei aveva proposto quel ristorante che non frequentava. Era un luogo piccolo e accogliente. Le luci erano discrete: ogni tavolo aveva un lume schermato in giallo o in rosso, i riflessi cadevano sulle tovaglie di Fiandra ben stirate.
In primo luogo le aveva scritto un anonimo, gentile biglietto. Dopo quarant'anni, la calligrafia era identica, verticale, non invecchiata; caratteri da studente abituato ad appunti funzionali e sintetici. Poi aveva telefonato da Roma. Dalla sequenza lei aveva dedotto che conservava alcune buone qualità: semplice nei rapporti umani, mai doppi fondi, comportamenti corretti. Le ragioni espresse nel biglietto erano certo quelle che lo avevano provocato: aveva trovato molte fotografie di lei ragazza, scattate non solo da lui ma anche dal comune amico Umberto morto sei mesi prima. In coincidenza di un viaggio di lavoro a Roma aveva pensato di portargliele di persona.
Nei primi anni Cinquanta molti giovani giocavano ai fotografi. I ragazzi più ricchi comperavano le apparecchiature per la stampa. Vecchi bagni di servizio o stanze di sgombero che le mamme accettavano di cedere, o una cantina dove arrivasse l'acqua, si trasformavano in camere oscure. Stampare era bellissimo. Ogni fotografia poteva essere variata in un processo interminabile secondo la carta, la permanenza nell'acido, sottoesposta o sovraesposta, per i particolari scelti, il taglio, il formato. Correggevano, cambiavano i rapporti tra luce e buio, sbiancavano le loro foto semplificando i piani o le invecchiavano o le riducevano a quadri astratti. Bisognava estrarle dall'acido con un tempismo che richiedeva la prontezza di uno scatto di partenza, non una frazione di secondo prima o dopo e l'immagine appariva del carattere voluto. Le fotografie venivano appese gocciolanti e molli.
Erano d'accordo nel considerare quei momenti felici. A lei piaceva la carta "mat". Vittorio creava ombre all'antica nei paesaggi e nelle architetture, Umberto preferiva nudi di donna se trovava soggetti compiacenti. In mancanza, si dedicava al ritratto. Lei posava, Vittorio e Umberto fotografavano. Lei si truccava alla francese, come nel "Porto delle nebbie": impermeabile di Vittorio con grosse spalline, bocchino, sigaretta, espressione possibilmente intensa. Il modello era Michele Morgan. Inventavano varianti all'americana, alla Doris Day, alla Lauren Bacall, con camicetta maschile, con perle e vestito che lasciava le spalle scoperte, labbra truccate rosso vivo...
Avrebbe potuto mandarle ma supponeva che altre ragioni lo avessero spinto verso un iincontro. Non era un affare di nostalgia, per il fidanzamento di giovinezza. Avrebbe giurato che si trattava del "fatto" che lei viveva da sei mesi, che riguardava un dolore, anzi un orrore. Si permetteva di intuire che anche lui era stato contaminato dallo stesso trauma e che cogliesse un pretesto per constatare un uguale fenomeno in lei, magari senza parlarne. Quando si sarebbero guardati in un certo modo, "l'orrore" forse avrebbe abbandonato il crudo diapason di un taglio inesorabile per la consolatoria solidarietà di una sera.
Decise di guardarsi intorno e giudicare con calma che tipo di ristorante fosse quando Vittorio aprì la porta e rimase tra i due battenti per una breve sospensione, spinto un poco in avanti a cercarla con gli occhi che incrociarono i suoi e subito con naturalezza fece un bel sorriso. Venne verso di lei: la curva indolente delle spalle che a ventidue, venticinque anni le era molto piaciuta, si era fatta pesante, visibile sgorbiatura di una fatica di vivere. Era meno alto, non di come lo ricordava ma di come era stato sul serio, infossato su se stesso, quasi ci avesse messo la volontà a piegare la schiena ogni anno di più, rinunciando per indifferenza alla sua statura e alla sua eleganza. Però gli occhi orientali che avevano sorriso e che si avvicinavano, risultarono identici. Dopo tanti anni trovò la singolare particolarità di un sorriso infantile.
Le dava la mano, si sedeva. Posò sulla sedia vicina una busta rigida dove sicuramente c'erano le fotografie fatte da lui e da Umberto; come nei films americani, come una diva, in pose da ragazzina, in costume da bagno, con il cappotto blu a bavero alzato che le piaceva. In casa e fuori. Era probabile che ci fossero altri amici, a meno che i gruppi non li avesse tenuti per se. Forse aveva avuto il delicato pensiero di mettere una fotografia di Umberto da solo o insieme a loro due, poiché formavano una terna, un trio, sempre necessari uno all'altro, ad un equilibrio del quale non sapevano niente ma che andava bene a tutti e tre.
Le morti o sparizioni non hanno una gradazione logica d'importanza. Nessuno ci avverte quali saranno quelle che ci sradicano dal tran-tran del tempo; dal cumulo sempre più alto di noi stessi. Con un furto imprevisto ci vengono sottratte, insieme alla persona, le immagini del nostro corpo come fu e come nessuno nel presente conosce, e una spinta violenta sbalza via dal patrimonio del passato, costringe di forza a capire che cos'è la vecchiaia, in che cosa consiste il suo buio, quale perfido sortilegio sta per accadere: un salto pauroso verso zone considerate remotissime, la terra dei sopravvissuti.
Avrebbe giurato che nel breve percorso tra la porta e il tavolo non si erano registrate sul viso di Vittorio espressioni che la riguardassero: né la sorpresa per i capelli tutti bianchi, che per altro lei portava con orgoglio perché le piacevano; né i cambiamenti della sua fisionomia e del suo corpo. Stava ben diritta sulla schiena, era ll'unica attenzione. Vittorio si sedette di fronte come se non fossero passati quarant'anni, senza mostrare imbarazzo, neppure la rapida nube che si addensa nello sguardo di chi ha conosciuto una donna in un'altra età.
La fissava con naturale interesse, si guardava intorno. Dietro alle spalle di lei lesse ad alta voce: "Orient-Express!" e di conseguenza lei si voltò: l'insegna di un vecchio treno portava la scritta in bianco su nero. Così capì qual'era la singolarità del ristorante; che non si trattava, insomma, di un modo di dire. Il gioco voleva che qualsiasi cosa o atto facesse riferimento al celebre treno e alla sua epoca d'oro, quando destava i sogni romantici o decadenti dell'Europa. Un elegante signore si avvicinò con due menù.
Sulla copertina la donna liberty del "Moet et Chandon" incorniciata da tralci di rose; e poi rose, vecchie rose da calcomanie, da ritagli di cartoncino lavorato dell'età umbertina, degli anni Venti e Trenta. Su ogni pagina il tema era, appunto, la rosa; rosa d'Oriente, rosa di Damasco, rosa vermiglia, sfumata nel giallo e nel bianco, carnosa, carnicina, in boccio, in mazzi. Come il vecchio treno ai primi del secolo, il menù toccava Londra, Parigi, Innsbruck, Vienna, Budapest, Istanbul; sceglieva da ogni luogo aromi, spezie, piatti tipici, curiosità. Ancora angoli "fin de siècle" sfogliando le pagine: due mani intrecciate per gli antipasti spuntavano da mazzi fioriti, violette, altre mani affusolate che porgevano un fiore o erano mazzi di fiori; i "desserts" erano accompagnati dai mughetti; per i vini rossi un pettirosso sul ramo, amorini per lo Champagne.
Ascoltarono il raffinato padrone che spiegava ogni piatto. Era incerta tra il "Tabuleh" e il "Sigara boregi" e Vittorio era tentato dal più semplice "Gamberi in barca". Vittorio privilegiò tra i primi "Ravioli di pesce con crema di zucchine" e lei una "Quiche lorraine". In quanto ai secondi Vittorio si decise per un filetto alle prugne; lei, per omaggio ad un ricordo di Grecia, quando il figlio era bambino, scelse il banale "Moussaka". Rinunciarono con rimpianto a "Sis kebab" e a "Etli lahana dolmasi" senza sapere che cosa perdevano: quali spezie, quali sapori esotici. Grecia, Turchia; comunque Oriente.
Aspettando i "Sigara", osservarono un manifesto alla parete di fianco. Un uomo e una donna, in abiti da viaggio, snelli, distinti, sedevano su poltrone di velluto verde, tra loro un tavolino con lume. Dal grande finestrino appariva un mulino a vento. Viaggi di lusso, d'amore, di squisitezze terrene: Paris-Bruxelles-Amsterdam, "Etoile du Nord".
La coppia in carta sottovetro rimandava i loro sguardi come da uno specchio a immagine bloccata. Benché non avessero mai fatto simili viaggi in un certo senso il passato amoroso sfuma sempre in ideali stereotipi di vita. Guardavano i due nello scompartimento di carta e si erano dimenticati di parlarsi. Il caso li aveva rimessi a una confidenza comune, con i gusti di studenti del dopoguerra, come erano stati: cinema e ancora cinema, concerti e jazz: Lo stesso finestrino dalle cornici in ottone, che si vedeva nel manifesto si moltiplicava sulle pareti del ristorante con specchi che allargavano l'ambiente. Sopra i finestrini-specchio erano state recuperate le reticelle degli scompartimenti e con graziosa ironia erano state messe cappelliere e valigette incernierate, alcune "cliches" con rose di garza e seta, guanti...
Tutto era "Orient-Express". Loro stavano seduti su panche di vecchio legno ben curvato. Dietro alle loro schiene erano posati i pizzi delle prime classi, che ripetevano delicati disegni a ovali e a losanghe. Senza che ci fossero state comunicazioni tra loro, lo stesso fatto poteva aver compiuto in parallelo un uguale svuotamento traumatico. Finito il corpo di Umberto, la sua faccia, le sue caratteristiche speciali, era saltato via parte del loro corpo passato, che lui conservava negli anni e negli occhi ora chiusi, rifiutando di assorbire e registrare i cambiamenti, riconoscere la fine di quell'alone che i corpi, e le anime, portano intorno solo quando sono giovani. Anche loro conservavano i corpi e le anime degli altri ma a differenza di quasi tutti gli esseri umani, Umberto li restituiva continuamente, con generosità, quando si vedevano li faceva rivivere, prometteva la bellezza, l'eternità delle loro ombre. Era l'archivio dell'amicizia, cioè della giovinezza, cioè della vita.
Nessuno ci pensa, si era detta tante volte nei sei mesi trascorsi: all'improvviso il prezioso archivio, affidato alla fallacità della nostra durata, svanisce e il nostro spessore se ne va. Si resta davanti a una lavagna sulla quale c'è da notificare solo ciò che siamo un giorno per volta. E come in un'aula, dietro alla lavagna si vede solo un muro nudo. Alle spalle, la profondità dello spazio è perduta con qualcuno che c'era e non c'è più. Avevano portato i "Sigara boregi" e il sapore della feta calda nel cannellone di pasta fritta le sembrò la cosa più buona che avesse mai mangiato. Chiuse gli occhi. Oh, Aleppo, che meraviglia. Che meraviglia Petra. Che meraviglia Palmira! Che grandiosi amici in quel viaggio, conosciuti come nelle fiabe americane, all'aereoporto, vicino ai bagagli. Bevevamo fino all'alba. Alla mattina camminavamo per il suck. Comperavamo catenine d'argento, sete sgargianti. Che ubriacatura di allegria, di soldi spesi per niente. Che bei ricordi non lontani. Viaggi, viaggi. "I Sigara" erano squisiti, la feta morbida.. Turchia, Siria, Giordania: non le venne in mente di chiedere a Vittorio se aveva viaggiato... Supponeva che non amasse viaggiare. Per quanto ricordava, solo Umberto riusciva a convincerlo. Umberto era stato metà della sua anima, la parte attiva, imprudente, fuori dalla norma alla quale lui aveva rinunciato fin da ragazzo. Non aveva mai conosciuto due amici così diversi e tanto adeguati a stare insieme e a parlarsi per una vita intera. Eppure in fatto di cuore le cose si erano svolte all'opposto perché Umberto, l'eccentrico, si era sposato una sola volta e non aveva dubitato della sua scelta. Vittorio aveva cambiato donne e mogli. Nelle vetrinette oggetti accatastati fingevano un emporio da ghetto. Ci voleva un'attenzione specifica, uno sguardo che li scovasse uno per uno; insignificanti cose rare che riportavano all'epoca dalla quale venivano i due del manifesto. Anni Venti e Trenta. Non li presero in considerazione. La foto di Marlene non li poteva impressionare. Lei disse "Ho saputo che vivi in campagna". Lui rispose: "Non mi trovo in città. Sto bene solo. Però invecchio, faccio più fatica. Mi stanco". Lei fece un gesto di opposizione. "Mi stanco. Ilaria manda avanti le cose. E' più giovane e ha più forza. Abbiamo gli animali, i cani, i gatti".
"Ilaria è contenta di vivere così? "E' nata in campagna". Esitava sempre prima di infrangere le regole della riservatezza. Non aveva mai amato parlare di sé o di sentimenti. "Meglio con gli animali che con gli uomini..." "Però..." Voleva dire che la loro età era pericolosa, che bisognava ostinarsi, cercare i propri simili, rifiutarsi alla fuga, cercare qualcosa, cercare, cercare. Ma Vittorio divagò: "Non ho mai conosciuto tuo figlio..." "L'anno scorso è andato a vivere da solo". Questa volta esitò lei, si fece coraggio. Gianluca meritava si mostrasse debole com'era. Siamo stati insieme tanti anni, noi due soli, da quando mi sono divorziata. Mai una preoccupazione, mai un dolore. E' stato un brutto colpo..." "Per loro è giusto, sai.." Gli disse che anche lei sapeva che era giusto e che era grata a suo figlio del modo nel quale le voleva bene. "Mi protegge. Non fa niente di particolare, ma mi protegge". Spiegò con calore che lo aveva scoperto quando aveva pochi mesi e aveva capito una cosa straordinaria, che un bambino piccolo, nella culla, protegge una donna, specie quando dorme placido nel silenzio della casa e lei è sola e non si sentono rumori; più di chiunque, di qualsiasi uomo. Disse Vittorio: "Non capita solo alle donne". Le versò da bere. Aveva ancora tanto lavoro a Genova, Milano e Torino ma stava rinunciando poco per volta. Non aveva più voglia di fare soldi. "Davide ha vissuto un po' con me un po' con sua madre". Si era laureato in biologia. Vittorio parlava con inconsueto calore, diceva che i giovani erano bravi e facevano una grande fatica a vivere perché il mondo era peggiore di quando loro erano giovani...
La sospensione si accordò sul "noi" che non venne, come se un pronome che li riuniva rappresentasse una stonatura formale, una mancanza di buona educazione. "Ho visto Davide una sola volta a casa di Umberto. Avrà avuto sette o otto anni. Ti assomigliava. Ti assomiglia ancora?". Vittorio si mise a ridere non per convenzione. "Eh.." Scosse la testa guardandola come per dirle che avrebbe potuto aggiungere a questa interiezione un lungo discorso che tuttavia lei era in grado di indovinare.
Dunque compì la frase per lui. Voleva dire: sì ma come io non sono più. Voleva anche dire: mi somiglia nel carattere, sì, in quello che non si deve essere per stare a galla nel fottutissimo mondo di oggi. Sono in tanti costretti a pensare così: dolenti di aver passato ai figli le proprie segrete sensibilità, le parti del carattere più belle, che più fanno soffrire. L'attitudine alla dignità. Continuarono a mangiare cose squisite. Ormai i loro modi erano diventati calmi, esprimevano benessere, da fratelli abituati a parlare o a tacere senza differenza. La musica in sottofondo faceva compagnia, la conoscevano e piaceva a tutti e due. Si trattava di un famoso trio: Benny Goodman al clarino, Gene Krupa alla batteria, e il pianista?
"Senti!" esclamò Vittorio. Goodman si inerpicava in uno dei lunghissimi acuti sempre più alti, teneva la nota e la piegava a scendere, modificarsi in un ottovolante che toglieva il fiato. Non il più geniale ma il più spettacolare nelle acrobazie che ubriacavano di entusiasmo. La batteria avanzò in primo piano e arretrò il clarino. "Gene Krupa!" esclamò ancora Vittorio. "Gene Krupa!" "E il pianista, chi è il pianista?..."
"Non riconosci più Teddy Wilson? Possibile?" Gli fece il verso, con una certa civetteria che veniva dall'impulso imprevisto di piacere: "Possibile? possibile?..." Vittorio aveva sempre tenuto a riconoscere solisti, musiche, direttori, stili.
Il lessico familiare funzionò. Erano diventati allegri e leggeri, e di conseguenza passarono a parlare di tutto: lavoro, fatiche, gusti, campagna e città, famiglia. Come la pensavano sul loro Paese. Bevevano un buon vino rosé scelto da Vittorio. Si scambiarono notizie asettiche sui loro matrimoni falliti senza fare domande, un onesto aggiornamento dei moduli che avevano in memoria, che creava uno scambio sempre più confidente benché la confidenza fosse solo nell'aria e non nelle parole. Vittorio era consulente di varie società chimiche, lei da venti anni si occupava di una galleria d'arte. Di sicuro la cena era piacevole e se uno parlava, l'altro ascoltava, mostrava di voler capire. A poco a poco veniva fuori la vecchia consuetudine. Si conoscevano "loro", non potevano tradirsi nell'anima. Da ogni parte ormai si era assaliti dagli inganni ma "loro" sapevano che una giovinezza così come era stata li salvava, se solo avessero potuto avere la fortuna di conservarla ancora negli occhi e nella mente di qualche altro essere umano, farne una corazza comune e un patrimonio da spendere. Così, come succedeva adesso. Se non era felicità era un forte sentimento, un talismano da tenere per i momenti peggiori. Poi "l'orrore" arrivò.
Girarono gli occhi verso la vetrina dagli oggetti accatastati e i loro sguardi con perfetta simmetria si fermarono insieme su due vagoncini dell'Orient- Express, modelli da amatore. Chinarono la testa sul piatto. Umberto aveva amato i treni con passione sfrenata, passavano davanti alla sua finestra quando era bambino. Il bambino aveva sognato per anni di guidarli, di vivere sempre sui treni. Poi era stato destinato ad altro,allora aveva costruito in cantina un treno elettrico complicato e grandissimo per i suoi giochi da eterno ragazzo. Poi li aveva disegnati come architetto. Se fosse stato con loro avrebbe voluto il piccolo Orient-Express, lo avrebbe voluto con tuta la sua volontà e lo avrebbe ottenuto per simpatia, per chissà quale invenzione o concessione, per scambio con qualche altra cosa preziosa ma molto meno preziosa per lui del raro vagoncino.
Per un perfido lampo della memoria si era creato un vuoto al tavolo dove Umberto non c'era e naturalmente le lacrime avevano formato un misero groppo in gola. E ora? "E ora?" disse all'improvviso Vittorio senza alzare lo sguardo, a se stesso.
Umberto era stato cancellato dal mondo prima di loro, aveva portato nel nulla l'archivio della giovinezza comune. Le avevano detto che da quando era morto Vittorio era pieno di malanni. Dentro di sé gli dette ragione: e ora? si chiedeva anche lei, che cosa diventiamo mai se muoiono gli amici? Ma mentre Vittorio non diceva più niente e mangiava, lei guardandolo si ricordò che aveva avuto il collo esile e lungo, che aveva avuto un modo speciale, attraente, di portare avanti la testa bruna dai capelli che ricadevano sugli occhi. E soprattutto constatò che aveva lo stesso sguardo, la stessa curiosa malinconia, la stessa bontà segreta a disposizione degli altri. Quando erano stati innamorati lei era troppo giovane per apprezzare la bontà di un uomo: nessuna ragazza cerca nel suo uomo la bontà. Anzi, nessuna donna si innamora della bontà perché le donne preferiscono il disprezzo, la crudeltà, la ferocia, l'indifferenza, l'egoismo; tutto viene prima della bontà. Quando la trovano la vilipendono, la deridono, la sfuggono, la contrastano, ammazza la loro sessualità invece di confortarla. Proprio da questa meschina caratteristica costruiscono spesso la loro abiezione erotica che le rende schiave e vittime, quasi mai grandiose e sovrane. La vera grandezza, toccare la vera grandezza....
Vittorio si era messo gli occhiali e leggeva la lista dei "desserts". "Nessuno mi toglierà un 'lemon pudding' " disse, "a meno che non abbia il coraggio di assaggiare i misteriosi 'Galamelli' ". Il momento brutto passava Tra poco avrebbero potuto guardarsi senza la paura di una imbarazzante commozione. Avevano sentito insieme Goodman nel '49, la prima volta che fece una tourné in Italia. Grandi esaltazioni, gran batticuore. Cose quasi ridicole, vissute con enfasi. Arrivò l'assolo della batteria, con una sbornia di ritmo dalla quale non potevano distrarsi. Vittorio parlò ancora a se stesso "Gene Krupa... 'L'uomo dal braccio d'oro'... l'assolo sulla scatola di fiammiferi..." Lei ricordava tutto benissimo, era inutile confermare le citazioni. "Negli anni Cinquanta nessuno sapeva più chi era...il più grande batterista della storia del jazz, il più grande..." "Già" disse lei. "E' così". Sentiva il bisogno di consolarlo, di stare lì al ristorante con lui e parlare di altri fantasmi, altri Gene Krupa che nessuno ricordava. Rivide per un attimo la bella faccia dolente di Kim Novak. Qualche cosa era diventato troppo triste, troppo dolce, un'atmosfera ambigua tra fratelli. Prese la busta "E' per me?" "Per te. Vedrai" disse Vittorio, socchiudendo gli occhi. Passò un guizzo di luce e di riso che le sembrò una fiammata dove intravide il suo puro viso di ragazza. "Vedrai...." E con una mano alzata chiamò il cameriere perché portasse il conto.