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 Valerio Magrelli 
 "Hylas e Philonous", in AA.VV., Quarto quaderno collettivo, Parma, Guanda, febbraio 1979, pp. 91-110 (Valerio Magrelli)
		"Hylas e Philonous", in AA.VV., Quarto quaderno collettivo, Parma, Guanda, febbraio 1979, pp. 91-110

La penna è il beccuccio di una beuta,
 il collo d’un alambicco che lentamente distilla.
 Si spiega allora l’avaro travaso
 della carne sul foglio, l’estrazione
 di tanto poco da tanto.
 In questo modo i filamenti sottili delle lampade
 ostruiscono la corrente e si arroventano,
 illuminando incandescenti la stanza.
*
La sigaretta brucia e si consuma
 parte in fumo, parte in cenere.
 Un po’ ne avanza.
 Il fumo è il frutto della dolorosa incandescenza,
 l’immediato spirito del tabacco.
 La cenere ne è il resto silenzioso
 e si consuma sulla carta secondo
 la discreta calligrafia del fuoco.
*
Una lingua non può dire tutto;
 esistono tra le sue parole
 spazi bianchi e vuoti, scavati
 come feritoie e silenziosi,
 ma che il vento attraversa.
 È di là che bisogna spiare
 l’arrivo dell’ospite,
 osservarne il passo e il vestito.
 In questa catena di sguardi si compie
 la metamorfosi del segno
 verso l’estremo cerchio della vista.
 E l’occhio, come un albero d’immagini,
 germina mobili forme di luce.
 Tutto è teso a raccogliere un limite
 che non ha carne o sesso,
 né suono. Una regione
 disabitata e deserta, un pensiero
 che non arriverà mai.
*
Il pensiero ha un suo ritmo preciso.
 Ha un’alba e una notte
 che ruotano nel tempo incontrollate.
 E si prova di colpo la sensazione della sera
 senza che sia sera.
 Il pensiero è un animale domestico.
 Domestico e animale.
*
La pagina è la mappa della mente
 le cui parole indicano il senso sepolto;
 il loro susseguirsi traccia
 un nuovo sentiero nel mondo.
 Perciò non il libro è letto, ma il pensiero,
 mentre l’occhio annoda i termini
 del lento cammino. Nè l’andare è continuo,
 anzi come per onde successive
 si svolgono i gradi dell’idea;
 sempre un altro orizzonte appare
 e il suo cerchio si moltiplica nello spirito.
 Ed è questo il procedere del linguaggio
 che ha l’assenza allusiva dello specchio
 e la inquieta circolarità del sogno.
*
E intanto avevo dimenticato questa carta,
 trascinato nel sonno, scrivevo in me
 frasi che non avrebbero veduto mai la luce.
 Le guance dei fogli abbandonati
 pativano la silenziosa incuria,
 ed intristivano...
*
Il corpo si distende tra queste righe.
 ne occupa le parole e se ne veste.
 Qui è posato un ginocchio,
 largo e pesante come una forma di cacio.
 Ogni frase è una gamba,
 un verbo è il cuore,
 che bagna tutto di sé;
 le sue silenziose maree
 non conoscono mai il sole.
 Ma questa creatura non sa
 staccarsi dal suo letto eterno,
 è nata prigioniera dal suo parto,
 incestuoso frutto del pensiero.
*
L’atto del comprendere è nell’uomo
 una meccanica affidata a minimi moti
 che si ripetono e si concatenano.
 A poche distinte immagini si riduce
 il cerchio delle sensazioni.
 Un’orbita sottile e rigida
 ne è l’intimo scheletro.
 Dietro la carne è il vero intelletto,
 la ragione costruttiva dell’osso
 che ne riassume le linee.
 E queste forme morbide,
 dall’osso tanto lontane,
 fanno il delirio dello spirito.
*
Impercettibilmente il caso
 tesse trame profonde ed intricate.
 Lungo il tempo si annodano pensieri e fatti
 e i loro rami s’incrociano
 in frutti perplessi.
 Non c’è regola in questo germogliare,
 forse la luna, che commuove il legno,
 o il terreno, che lo colora.
 Ma l’uomo non coglie il segreto
 moltiplicarsi delle linee,
 il procedere delle radici che lente
 si distendono nell’ampia conca degli anni.
*
Dopo aver abbandonato
 un oggetto, un paese o una persona,
 si resta ancora per un po’ di tempo
 nel campo della sua ombra.
 E spesso più ombre s’incrociano
 o si richiamano, sicché
 è sempre sotto la luce del ricordo
 che vivono i nostri giorni.
 È raro però tornare
 due volte nello stesso luogo,
 perché l’orbita del cammino
 non conosce il suo centro.
*
Scrivere sul vuoto, del tempo.
 Silenzioso dialogo e complicato disegno:
 la pagina è quadro d’infinite calligrafie.
 È il principio della vertigine,
 guardarsi guardare.
 Ormai la cornice ha invaso ogni spazio
 lasciando soltanto un’assidua feritoia.
 È il cancro dell’arte barocca,
 le immagini non hanno più sosta
 e si moltiplicano: tutto brulica
 e mormora di sé.
*
Così il corpo non si perde puramente
 in una variazione infinita, 
 ma conserva la sua forma segreta
 che non muta e attraversa
 identica a se stessa, tutte le proprie età.
 E nel confuso accavallarsi del pensiero,
 nel doloroso disordine del tempo,
 attorno a suo asse si compiono
 le stagioni della nostra carne.
 Perciò lungo la dolce orbita del giorno
 ogni gesto trascorre immemore, lentamente
 maturato nel centro scuro dello spirito:
 né c’è luce alcuna,
 ma buio e silenzioso fermento.
*
Io e questa lampada siamo chini sul foglio,
 Warren L. Smith è l’autore del libro su cui scrivo.
 C’è una mosca che vibra sul vetro,
 eppure è inverno. L’aria profonda
 della sera che si prepara al pasto
 è attraversata da nomi di donna.
 E la cravatta mi stringe troppo il collo.
 Il foglio coperto per un terzo
 inizia ad imbrunire
 ed è questa una seconda notte che avanza.
 Nomi di donna la solcano
 come pesci silenziosi,
 isole corrose dalla corrente,
 levigate come frutta.
 La lampada percossa suona
 in questa notte di dicembre
 e mentre la linea della luce s’incurva
 l’anno mi chiude la pagina.
*
La solitudine è infine lo stato di quiete,
 come la base più larga di un triangolo,
 in cui l’uomo torna a deporsi nel sonno.
 Né è possibile dividere con altri queste ore,
 ma in silenzio si deve compierle
 e separarsi da tutti. Sono stanze
 in cui nessuno può entrare,
 e se si posson narrare è solo come ricordo,
 con le povere immagini dell’assenza.
 Su questo foglio adesso germina il sonno
 e nell’ombra fruttifica. Ora non c’è più spazio
 per parlare, le parole si accavallano,
 mescolandosi s’incrociano.
 Feconda è la promiscuità dei segni,
 essa genera nuove razze e fiori
 al limitare del suo orto.
*
Non ha nome quest’ora
 dimenticata tra il tramonto e la sera.
 Non c’è più sole ma il cielo
 è trasparente e chiaro
 come la pancia di un pesce.
 I passanti trascorrono
 ignorando il dolore del giorno
 svenato, già assente.
 È la nuova carne della notte,
 pallida ancora prima d’ossidarsi
 È l’estremo sospiro della luce,
 purificata dalle ombre
 perché senza più origine.
*
Scrivo sempre le stesse cose;
 come quando leggendo, stanco,
 mi capita di ripetere tante volte una riga.
 È il pensiero che parcheggia sul foglio,
 non scorto, fingendo di leggere un giornale,
 come un detective sul marciapiede.
*
«Vincere» dice: acquistare in se la vittoria.
 «Perdere» dice: e, il non riuscire a pervenirvi
(come sconfitta);
 e, il pervenirvi ma poi distaccarsene
 (come abbandono).
Si può perdere una scommessa ed un oggetto.
 Il mondo è perciò già sempre vittoria,
 in cui ogni mancanza diventa perdita.
 (Come pure, in un recipiente da cui fuoriesca
 del liquido, si dice che perde, arriva cioè ad
 avere l’esperienza del vuoto).
 Lo spazio si dirada e l’uomo torna solo.
*
Sono stato l’unico a vedermi il naso
 dal fondo della mia pupilla.
 Questa pudica prospettiva,
 a me solo concessa,
 è stata forse la sorgente del mio spirito.
 Io sono nato in questa valle di carne,
 cresciuto mentre la narice si gonfiava
 nel sospiro, nell’ira, nel riso.
 La morte solamente saprà colmare
 questa paziente vasca d’immagini.
*
La variazione della parola
 fa scivolare il pensiero lungo la pagina.
 Come uno spettro luminoso, lentamente,
 un verbo cambia colore e si trasforma.
 Sono innesti graduali, cosicché ogni segno
 conosce un’alba ed una sera. A volte,
 muoiono in me interi popoli di vocaboli,
 secondo le silenziose carestie della mente.
 Ma la resurrezione è possibile.
 Capita anche che nascano sul foglio
 nomi improvvisi, ospiti di passaggio,
 che vagano per qualche riga prima di ripartire.
 Io osservo tutto questo
 perché sono il custode del quaderno,
 e prima della notte faccio il giro
 per chiuderne le porte.
*
Cade la corteccia dal fusto chiaro dei ricordi,
 ma già la nuova carne si oscura.
 Distaccando gli anelli morti
 si risale nel tempo fino alla loro origine
 seminale. Così il tronco s’apre
 come un libro sfogliato,
 e le sue pagine circolari
 si specchiano nel silenzio del legno.
 Quest’albero è una macchina avvitata per terra:
 e nel suo cuore orizzontale, come nell’acqua,
 dolcemente s’allarga l’onda delle stagioni.
*
È come se avessi perso un occhio.
 Ho scavalcato la notte nella luce.
 Come una pianta ho sradicato il sonno,
 e il cielo dell’alba
 è tutto una bianca cicatrice.
 Il volo della notte ha caratterizzato
 il mio letto vuoto, disperdendo
 le immagini del sogno.
 Così mi ritrovo nella luce,
 orfano d’ogni ombra,
 ed ho il cervello accecato
 come una casa nel sole.
*
La metafora e la comparazione
 sono grandi virtù poetiche.
 Raddoppiano l’idea che fecondata
 rimanda la sua eco.
 Sono forme di un baratto d’immagini,
 catene d’allusioni.
 Così, quando il pensiero attraversa
 il loro campo, ne rabbrividisce e si duplica.
 La silenziosa elettrolisi della sintassi
 apre nel linguaggio
 un’altra viva ferita.
 Ma è per salassi che si scrive
 sul corpo del grande malato.