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 Valerio Magrelli 
 "Ora serrata retinae", Milano, Feltrinelli, 1981 (Valerio Magrelli)
		Ora serrata retinae, Milano, Feltrinelli, 1981
Molto sottrae il sonno alla vita.
 L’opera sospinta al margine del giorno
 scivola lenta nel silenzio.
 La mente sottratta a se stessa
 si ricopre di palpebre.
 E il sonno si allarga nel sonno
 come un secondo corpo intollerabile.
Ammirevole è la vita delle cose.
 Nulla trapela dai loro gesti
 impassibili, presagiti e scelti
 come unica e costante idea.
 Sono sacerdoti assorti
 che occupano questa sala
 per un misterioso capitolo.
Prima dell’ultima curva del giorno
 colgo delle parole con cui dormire:
 nella sera esse riprendono
 le vesti pesanti e accorte.
 Il loro andare è misurato
 e come mattoni allineati s’incastonano
 nella bianca calce della pagina.
 È un muro che scende dall’alto
 il lento trascorrere del segno.
 Non c’è finestra o spiraglio
 ma preziosa e gremita
 cura del fitto unire.
 Vorrei fosse un’unica figura
 la gemma che ancora dura e chiusa
 il giardiniere stacca e si regala.
Preferisco venire dal silenzio
 per parlare. Preparare la parola
 con cura, perché arrivi alla sua sponda
 scivolando sommessa come una barca,
 mentre la scia del pensiero
 ne disegna la curva.
 La scrittura è una morte serena:
 il mondo diventato luminoso si allarga
 e brucia per sempre un suo angolo.
Così si percorre la vita,
 con l’ansia del commensale
 tra portate che non arrivano.
 Si mangia molto pane e si beve,
 molto si conversa di favolosi cibi,
 universi d’origano, foreste
 d’inauditi sapori. È già tardi
 e sul limitare del pasto
 in un deserto di molliche dalle segrete forme
 (e questo è un piede sinistro, si vede),
 la nera morte araba ci congeda.
Questa piazza è un orologio vasto
 una macchina accordata
 che si misura lenta nel tempo.
 È un bosco pietrificato,
 una scogliera,
 la meridiana muta della mente.
Essere matita è segreta ambizione.
 Bruciare sulla carta lentamente
 e nella carta restare
 in altra nuova forma suscitato.
 Diventare così da carne segno,
 da strumento ossatura
 esile del pensiero.
 Ma questa dolce
 eclissi della materia
 non sempre è concessa.
 C’è chi tramonta solo col suo corpo:
 allora più doloroso ne è il distacco.
Domani mattina mi farò una doccia
 nient’altro è certo che questo.
 Un futuro d’acqua e di talco
 in cui non succederà nulla e nessuno
 busserà a questa porta. Il fiume
 obliquo correrà tra i vapori ed io
 come un eremita siederò
 sotto la pioggia tiepida,
 ma né miraggi né tentazioni
 traverseranno lo specchio opaco.
 Immobile e silenzioso, percorso
 da infiniti ruscelli,
 starò nella corrente
 come un tronco o un cavallo morto,
 e finirò incagliato nei pensieri
 lungo il delta solitario dello spirito
 intricato come il sesso di una donna.
Dieci poesie scritte in un mese
 non è molto anche se questa
 sarebbe l’undicesima.
 Neanche i temi poi sono diversi
 anzi c’è un solo tema
 ed ha per tema il tema, come adesso.
 Questo per dire quanto
 resta di qua della pagina
 e bussa e non può entrare,
 e non deve. La scrittura
 non è specchio, piuttosto
 il vetro zigrinato delle docce,
 dove il corpo si sgretola
 e solo la sua ombra traspare
 incerta ma reale.
 E non si riconosce chi si lava
 ma soltanto il suo gesto.
 Perciò che importa
 vedere dietro la filigrana,
 se io sono il falsario
 e solo la filigrana è il mio lavoro.
La penna non dovrebbe mai lasciare
 la mano di chi scrive.
 Ormai ne è un osso, un dito.
 Come un dito gratta, afferra ed indica.
 È un ramo del pensiero
 e dà i suoi frutti:
 offre riparo ed ombra.
A quest’ora l’occhio
 rientra in se stesso.
 Il corpo vorrebbe chiudersi nel cervello
 per dormire.
 Tutte le membra rincasano:
 è tardi. E queste due ragazze
 sul sedile del treno
 s’inclinano col sonno nella testa
 stordite dal riposo.
 Sono animali al pascolo.
L’esperienza c’insegna che ogni idea
 s’accompagna a un’idea
 nel corso ordinario delle cose,
 e che quindi poter prevedere
 dà regola alle nostre azioni
 secondo le necessità della vita.
 Altrimenti sarebbe il dubbio,
 non saper nulla in modo
 che ci desse o levasse
 il dolore dei sensi.
 E ogni mezzo conduce
 ad un suo risultato
 secondo leggi stabilite di natura.
 E senza, saremmo incerti e confusi
 né un adulto saprebbe vivere
 meglio d’un bambino appena nato.
 Tuttavia questa meccanica uniforme
 che indica la saggezza dello spirito
 non guida verso lui la nostra mente
 che vaga in cerca d’altre ragioni.
Ogni sera chino sul chiaro
 orto delle pagine,
 colgo i frutti del giorno
 e li raduno. Allineati
 su filari paralleli corrono i pensieri,
 tracce di accorti innesti.
 La mia vita è legata
 al frugale raccolto,
 il suo consumo è quotidiano, dimesso.
 Nessuna logica è nel prendere
 i fiori o i frutti secchi. L’unica,
 e può bastare, è in questa secrezione
 spontanea e vegetale dell’idea.
 Lenta commozione della terra
 che turbata la concepisce. O la cucina
 per il suo disadorno commensale.
Secondo le stagioni
 il torrente del segno
 attraversa questi fogli.
 Ora è secco e gracile
 e l’acqua silenziosa;
 poi scuro e gonfio
 trascinerà con sé
 sassi e strane radici bianche.
 Ignoro cosa governi l’interna
 commozione della corrente
 ed i suoi ritmi. Così non posso,
 come un antico agricoltore
 attendere l’ora della piena,
 né provocarla. Ma voglio un giorno
 distendermi nella pagina e dormire,
 e diventare la mia stessa reliquia.
Questa ragazza si sottrae ad ogni gesto
 ed è cieca ai miei inganni, né può
 scorgere il filo del mio parlare,
 né inciamparvi. Attraversa ogni trama
 senza nemmeno sapere a cosa si sottrae,
 o forse proprio questo incurante sostare
 le dona prodigiosa incolumità. Così,
 mi sento quasi una terra abbandonata,
 su cui di sera quietamente passeggiano
 uomini ed animali; e questa donna
 cresce dentro di me, dolorosa
 come un uccello vivo nel torace.
 Paziente dovrò aspettare
 la lenta espunzione di questo corpo estraneo,
 che varcando l’orizzonte dei sensi
 lascerà di sé solo
 la sottile firma d'una cicatrice.
Stasera mi sono visto nello specchio,
 con una canottiera bianca
 e la barba lunga delle malattie.
 Ma avevo ancora attraversato il dolore,
 e la carne era fresca
 e tutto il dubbio dissolto.
 Avevo doppiato una stagione di sconforti.
 Appena girato lo scafo,
 coperti dal promontorio grigio,
 il vento cade di colpo
 e l’impeto si quieta
 e stupisce del suo esaurirsi.
 Così il marinaio è salvo.
Questo studio è in realtà soltanto
 una paziente meteorologia dell’uomo.
 Accorta analisi delle maree del pensiero
 e delle mutazioni della carne,
 che come un pianeta silenzioso lo attrae.
 Calcolo delle correnti e dei venti,
 dei climi e delle oblique
 isobare dello spirito; stesura
 delle effemeridi corporali.
 Osservatorio appartato d’ogni variazione
 che la mente proietta sul cielo del cranio.
 Ma in tutto questo ancora
 non riesco a prevedere
 il passaggio delle comete e delle donne.
Io abito il mio cervello
 come un tranquillo possidente le sue terre.
 Per tutto il giorno il mio lavoro
 è nel farle fruttare,
 il mio frutto nel farle lavorare.
 E prima di dormire
 mi affaccio a guardarle
 con il pudore dell’uomo
 per la sua immagine.
 Il mio cervello abita in me
 come un tranquillo possidente le sue terre.
Foglio bianco
 come la cornea d’un occhio.
 Io m’appresto a ricamarvi
 un’iride e nell’iride incidere
 il profondo gorgo della retina.
 Lo sguardo allora
 germinerà dalla pagina
 e s’aprirà una vertigine
 in questo quadernetto giallo.
È specialmente nel pianto
 che l’anima manifesta
 la sua presenza
 e per una segreta compressione
 tramuta in acqua il dolore.
 La prima gemmazione dello spirito
 è dunque nella lacrima,
 parola trasparente e lenta.
 Secondo questa elementare alchimia
 veramente il pensiero si fa sostanza
 come una pietra o un braccio.
 E non c’è turbamento nel liquido,
 ma solo minerale
 sconforto della materia.
La porta si chiude modulando
 nei cardini il suono del corno.
 È il canto della notte
 l’armonia che giaceva
 ignorata nel legno.
 Chiunque passando provoca
 la musica sepolta, che ogni volta
 riaffiora diseguale.
 Forse un linguaggio ne governa
 i termini e le misure, forse il caso.
 Il discreto disegno
 della ruggine e dell’acqua
 narra la segreta epopea della soglia.
Il paese del sonno d’estate si allarga.
 Le sue acque riflettono
 in onde lente ogni gesto.
 Sulle sponde sussurrano parole
 come erba, mentre in alto trascorrono
 le costellazioni dei nostri morti.
 Ruota la mente nel cardine della notte;
 il ricordo si moltiplica nello spirito
 come gli anelli nel tronco degli alberi.
S’introduce a volte nel pensiero
 come nell’acqua, un riflesso
 che l’attraversa e ne misura il fondale.
 È un occhio che si apre
 dentro le lucide onde e vi affonda.
 La linea si distende e la luce
 discendendo si quieta.
 La mente torna allora a chiudersi
 nello sforzo verticale e profondo
 della ferita e del gorgo.
Il miracolo del riposo torna a compiersi,
 l’accorto depositarsi delle gambe,
 la cura della stanchezza che sparpaglia
 le membra a terra, in gesti sigillati.
 È il teatro metafisico del letto
 che nasconde assorti bassorilievi:
 un uomo corre e una donna alza la mano
 per salutare il passante d’un sogno.
 Nelle regioni della notte si snoda
 la complessa meccanica dell’abbandono.
 È una danza rituale che unisce
 i termini del sonno, è il sonno stesso
 in cui la carne diventa idea.
 Ora la solitudine del braccio
 si fa parola, nella linea
 tracciata lungo il letto come un sentiero.
 Così, secondo un ritmo vegetale
 si alterna la respirazione della vita
 e nel silenzio della mente
 le sue radici di ossa cantano,
 e nell’oscurità dell’occhio
 la mano diventa pupilla.
Ho finalmente imparato
 a leggere la viva
 costellazione delle donne
 e degli uomini le linee
 che uniscono tra loro le figure.
 E ora m’accorgo dei cenni
 che legano il disordine del cielo.
 In questa volta disegnata dal pensiero
 distinguo la rotazione della luce
 e l’oscillare dei segni.
 Così si chiude il giorno
 mentre passeggio
 nel silenzioso orto degli sguardi.
Su questo cielo d’estate
 passano ormai poche nuvole,
 lembi d’un temporale lontano.
 La lenta carovana attraversa
 lo spazio in silenzio e si dissolve
 senza toccare l’arco dell’orizzonte.
 Nessuna forma ormai colma
 l’enorme conca.
 Quando l’aria era fredda
 immense regnavano statue
 sospese sulla terra, e vagavano
 come divinità mute,
 e partorivano l’ombra.
 L’intera volta era istoriata
 di dolore e di calma:
 gli uomini attendevano la pioggia.
 Ora la pagina è tornata chiara,
 e la luce ha sbiadito
 le ultime tracce della notte.
Il cervello è il cuore delle immagini,
 il suo orizzonte la curva
 rigida dell’occipite.
 E tutto ciò che vive
 è nello spirito. Nel suo cerchio
 silenzioso stanno il cielo,
 gli uomini e se stesso.
Se io venissi a mancare a me stesso,
 è questo il mio turbamento.
 Temo d’evaporare a poco a poco,
 di perdermi nelle fessure del giorno
 dimenticando così il mio pensiero.
 A volte mi scopro nel silenzio
 delle cose che ho intorno,
 oggetto tra gli oggetti,
 popolato di oggetti.
 Dunque il dolore è metamorfosi
 e le sue cause si susseguono
 non viste mostrandosi
 per quello che non sono.
 Questo anzi è il primo dolore.
 Gli occhiali allora andrebbero portati
 tra l’occhio ed il cervello,
 perché è là, tra boscaglie
 e piantagioni di nervi
 l’errore dello sguardo.
 Qui si smarrisce la vista
 e nel suo andare alla mente
 si corrompe e tramonta.
 Come se traversando
 pagasse ad ogni passo
 il pedaggio del corpo.
Il corpo è chiuso come una muraglia,
 è come un pozzo immerso nella carne
 che non giunge ad avere
 impressione di sé.
 E le sue membra stanno
 mute e cieco e fermo
 nella gamba riposa il ginocchio.
 Ma nella testa s’apre
 l’alba del mondo:
 l’osso si allarga, accoglie
 dentro di sé lo sguardo.
 Dolcemente si compie
 il paziente travaso del vedere,
 acquedotto di chiarore, strada
 che porta l’essere a se stesso.
 E nella radura della fronte
 il portale del ciglio ha la sua luce.
Ho la mente coltivata
 come una piantagione.
 A seconda del seme
 il suolo si colora
 e come nella lingua
 ogni zona ha un sapore.
 Il mio pensiero è una terrazza
 aperta su me stesso.
 O forse è solamente l’impressione
 dei sensi che confonde
 come fanno le dita accavallate
 una cosa con due.
Sto rifacendo la punta al pensiero,
 come se il filo fosse logoro
 e il segno divenuto opaco.
 Gli occhi si consumano come matite
 e la sera disegnano sul cervello
 figure appena sgrossate e confuse.
 Le immagini oscillano e il tratto si fa incerto,
 gli oggetti si nascondono:
 è come se parlassero per enigmi continui
 ed ogni sguardo obbligasse
 la mente a tradurre.
 La miopia si fa quindi poesia,
 dovendosi avvicinare al mondo
 per separarlo dalla luce.
 Anche il tempo subisce questo rallentamento:
 i gesti si perdono, i saluti non vengono colti.
 L’unica cosa che si profila nitida
 è la prodigiosa difficoltà della visione.
Dietro queste immagini che lampeggiano
 sul foglio c’è una regola,
 un punto geografico del mio osservare,
 una gradazione delle diottrie mentali,
 un’impronta digitale,
 dietro questa mia lingua
 c’è una popolazione del cervello.
 Dietro di me ci sono io, bifronte,
 curvo sullo specchio del pensiero.
Un tempo si portava sulla pagina
 il giorno trascorso, adesso invece
 si parla solamente del parlare.
 Come se nel tragitto
 dall’impressione alla carta
 si fosse dischiusa una vertigine.
 Dunque passando
 dall’una all’altra sponda
 tutte le mercanzie vanno perdute
 e il viaggiatore
 dimenticato il viaggio
 sa narrare soltanto del pericolo corso.
Non ho un bicchiere d’acqua
 sopra il letto:
 ho questo quaderno.
 A volte ci segno parole nel buio
 e il giorno che segue le trova
 deformate dalla luce e mute.
 Sono oggetti notturni
 posati ad asciugare,
 che nel sole s’incrinano
 e scoppiano. Restano pezzi sparsi,
 povere ceramiche del sonno
 che colmano la pagina.
 È il cimitero del pensiero
 che si raccoglie tra le mie mani.
Questo quaderno è il mio scudo,
 trincea, periscopio, feritoia.
 Guardo da una stanza buia nella luce;
 non visto vedo, vergognosa scienza della spia.
 Assegno che ad ogni riga cresce,
 miracolo dei pani moltiplicati,
 libro mastro di perdite e guadagni
 nel lungo arco dei commerci umani.
 Superficie di carne su cui gratto
 prima di prender sonno, e che carezzo
 come un piede
 dopo il cammino del giorno.
Anche questo quaderno
 sta per tramontare,
 l’ultima pagina svanisce,
 si confondono le righe nel buio.
 Io resto prigioniero
 mentre tra me
 e il cielo della carta
 continueranno a correre
 le sbarre dell'inchiostro.
 Solo di questa interminabile
 cattività so scrivere
 e scrivendo infittisce
 la trama del mio carcere.
 Su questo foglio ingenuamente si mima
 la muta segregazione dello spirito.
Scivola la penna
 verso l’inguine della pagina,
 ed in silenzio si raccoglie la scrittura.
 Questo foglio ha i confini geometrici
 di uno stato africano, in cui dispongo
 i filari paralleli delle dune.
 Ormai sto disegnando
 mentre racconto ciò
 che raccontando si profila.
 È come se una nube
 arrivasse ad avere
 forma di nube.
Così il corpo non si perde
 in una variazione infinita,
 ma conserva la sua forma devota
 che non muta e attraversa
 identica a se stessa
 tutte le proprie età.
 E nel confuso accavallarsi del pensiero,
 nel doloroso disordine del tempo,
 attorno al suo asse si compiono
 le stagioni della nostra carne.
Scrivere adesso, di notte,
 è l’ultimo gesto prima d’immergermi
 nell’alveo del sonno. Solo il viso
 naviga come una prua
 sulle coperte e beccheggia
 ed è l’ultima parte
 d’una nave che affonda.
 Col logoro filo del giorno
 disegno queste parole
 preparando la mia resurrezione.
 Dopo, disteso nell’urna del lenzuolo,
 raccolto come un penitente
 scenderò nell’inferno del silenzio.
C’è un momento in cui il corpo
 si raccoglie nel respiro
 e il pensiero si sospende ed esita.
 Anche le cose
 commosse dalla luna
 subiscono il sospiro delle maree
 o delle flessioni dolci dell’eclisse.
 E il legno delle barche
 si gonfia nell’acqua delicato.
È tempo adesso che cominci
 il pellegrinaggio serale del pensiero.
 Raccolto ad ogni angolo del corpo
 si disponga di nuovo sulla pagina
 secondo la lenta oscillazione della mano.
 Questa è la muta
 taumaturgia del gesto
 che assolvendo il giorno lo dissolve.
 Io scruto le parole come dadi
 o bestie sacrificali o uccelli,
 e ne consulto l’intreccio
 e ne misuro l’andare
 nel cielo del cervello.
 È come chiedere
 ed augurare il nome
 ad ogni notte.
Questa carta è per me prima del sonno
 l’incarnazione del corpo
 nel velo del pane.
 Comunione e consunzione
 dell’ultima parola.
 Come se ogni sera
 lasciassi sopra il letto
 una lapide quotidiana,
 l’emblema per conoscere chi dorme.
Questa cucina è una natura morta con cuoco.
 È lui che dà morte alla natura.
 Nell’odorato mondo delle erbe
 egli distribuisce la parola.
La variazione della parola
 fa scivolare il pensiero
 lungo la pagina.
 Come uno spettro luminoso
 il verbo lentamente muta
 e trascolora.
 Sono innesti graduali,
 ogni segno conosce
 un’alba ed una sera.
 A volte muoiono
 popoli di vocaboli
 secondo le carestie
 silenziose della mente.
 Capita anche che giungano sul foglio
 nomi improvvisi, nomadi
 che vagano qualche tempo
 prima di ripartire.
 Io osservo tutto questo
 perché sono il custode del quaderno
 e prima della notte faccio il giro
 per chiuderne le porte.
Ecco la lunga palpebra della donna,
 il sopracciglio vasto che attraversa
 il pensiero dopo la pioggia
 e lo illumina. Il suo arco
 misura nel silenzio la sera
 percorrendo assorto
 la chiarità curva del cielo.
 Questa è l’ultima porta
 d’un antico acquedotto di sguardi.