"Confessioni di un invidioso", Il Messaggero, 1991
Mio padre e mia madre non li ho scelti io. Come non ho scelto la mia casa dell'infanzia e dell'adolescenza. Non ho scelto la mia faccia, la lieve cadenza meridionale della voce, i mobili, gli oggetti e gli amici che mi sono stati intorno fino a vent'anni. Non ho scelto quasi niente di quanto ha formato la mia vita e la mia personalità. Oggi che sono un adulto mi accorgo di aver passato gran parte del mio tempo a difendermi da colpe non mie. Tutto l'armamentario che ha fatto da corredo alla mia formazione di cittadino italiano, oggi posso dirlo con cognizione di causa, non mi è mai piaciuto. Mi ha costretto ad una fatica inumana: quella di ricostruirmi intorno ciò che altri, più fortunati, hanno avuto in dono nel momento stesso della nascita.
Il mio è stato soprattutto un grande sforzo di fantasia, perché alla mia infanzia e alla mia adolescenza, malgrado tutto, sono profondamente affezionato: ogni volta che provavo ad immaginarmi un modo diverso, mai sperimentato, di vivere, mi si presentavano davanti agli occhi scenari ogni volta differenti. E non sempre così radicalmente opposti al mondo dal quale volevo uscire. Qualcosa di impalpabile mi tratteneva. Oppure mi spingeva, dopo che avevo tentato il primo passo, a fare un giro largo per tornare sempre indietro, allo stesso punto di partenza.
I tre quarti di ciò che oggi io sono, insomma, non mi appartiene. Costituiscono il debito che ho ereditato dai miei genitori, quanto me innocenti. Quell'ultimo quarto che mi è stato concesso come credito, che potrebbe potenzialmente decidere del destino dei miei figli, di una generazione ancor più lontana dal mondo dei nonni e dal mio, è una terra di conquista dove si scontrano draghi e dei. Le mie difficilissime scelte di adulto, infatti, tutte tese a cancellare ogni traccia di un passato che non mi piace, vengono quotidianamente incoraggiate e poi frustrate dall'astrattezza e dal vuoto della pura immaginazione. Cioè dall'irrealtà. Non trovo altro modo di inventarmi una vita diversa, di imboccare una strada alternativa a quella assegnatami dal destino, se non cercando di rendere migliore tutto ciò che mi ha fatto e che odio. Un'impresa quasi impossibile e che da solo non potrei mai portare a termine.
Così continuo, con la mia faccia, con la mia voce, con la mia testa di allora, a nutrire i mali originari. Nello stesso tempo, forzando fin quasi alla follia il tradimento, mi avventuro in territori di nessuno, dove, distorti e sconvolti, vivono insieme i fantasmi del passato e gli angeli del futuro, la vaghezza dei sogni e la memoria viva degli affetti più struggenti. In questa terra di confine non ho compagni, perché vi abita solo chi è nato altrove. E' un purgatorio spopolato, in cui gli alberi, le siepi, i monti hanno forme imprecise, in perpetua trasformazione.
Conosco coloro i quali, al contrario di me, sono venuti al mondo nella casa più giusta, sotto i migliori genitori, nell'agio e nella serenità. Li ho invidiati per anni perché li vedevo aristocraticamente occupati non certo a distruggere ma a costruire. Passavano tutto il tempo che volevano a succhiare fino all'ultima goccia il meglio dai beni che avevano ricevuto per grazia divina. Nascevano nel bello e apparivano belli anch'essi.
Ma qualcosa, d'improvviso, ha cancellato dalle mie aspirazioni segrete il mito di questi figli del bene. E fu quando le loro case e i loro templi cominciarono ad essere assaltati dai mercanti e dai banditi di strada, quando città e campagne si popolavano della stessa gente, rumorosa e numerosa più che mai. Più che mai decisa a prendersi e a dividersi le loro fortune. Li ho visti, i miei invidiati coetanei, in preda allo spavento, quando hanno deciso di scendere a patti, quando hanno utilizzato con somma arte e a loro vantaggio gli insegnamenti degli antichi privilegi.
Essi oggi utilizzano tutta la loro libertà e tutte le loro energie nel tentativo di non lasciarsi distruggere. Così come io, con puntigliosa precisione, tento di distruggere l'ingombrante nulla che riempie la mia vita interiore. La difesa dei privilegi, per quanto sacrosanta, è pur sempre una battaglia umiliante, che tanto somiglia alle mie. Osservo con tristezza gli invidiati coetanei: stanno modificando le loro case rendendole uguali a quella dei miei genitori. E già i loro figli si chiedono come tradire il proprio destino.
Ecco allora che la mia tristezza si trova d'improvviso senza un cuore, senza più rabbie, senza invidie. In quel purgatorio di smarriti incontro i destini più lontani dal mio, anche i più fortunati. Mi giungono i primi segnali della stanchezza, forse della vecchiaia: questi mi spingono a ripescare nei ricordi, e con spirito nuovo, tutto ciò che in questi anni ho voluto cancellare. La mia casa dell'infanzia e dell'adolescenza, le scuole che ho frequentato, gli amici che ho avuto, mi sembrano oggi memoria di tutti: una fatalità naturale, come un temporale, un terremoto, un fulmine. Quei tempi e quelle strade comuni ci rendono uguali per tre quarti. Non ha più senso cercare aggettivi al proprio passato. I miei invidiati coetanei ed io non siamo padroni che di un quarto della nostra persona.
La mia invidia, in questi ultimi anni, ha perso la sua leva. E forse, per ragioni a me del tutto estranee, le circostanze si son girate a mio favore, perché fin da ragazzo mi sono allenato a fantasticare una vita diversa e impossibile. Col tempo ho raffinato il mio istinto predatore, ho addestrato il fiuto a stanare brandelli di verità nel ginepraio di vacuità dei nostri tempi. Non sopporto il peso di irreparabili furti. Non ho nostalgie: il mio passato non ha regali da farmi e non ne invoco mai l'aiuto. Non aver mai avuto privilegi, in fondo, è meglio che averli perduti.