"Il fotografo del Papa", in La gente, Torino: Einaudi, 1993, pp. 106-110
Ho troppo mestiere per non sapere che nell'arte fotografica nulla è più vero dell'inganno. Guai a fare l'equazione sorriso uguale gaiezza e broncio uguale malinconia. E' il fotografo che decide carattere, personalità e umore dei suoisoggetti. Questa verità l'ho scoperta quasi per caso, tanti anni fa, quando immortalai un'immagine rimasta storica, che ha fatto la mia fortuna e forse anche quella dell'illustre persona ritratta dal mio obiettivo: il Papa.
La foto, dopo essere stata appesa alle mille pareti delle canoniche, dei conventi, delle sacrestie, degli uffici vescovili e parrocchiali sparsi peril mondo, è stata riprodotta in milioni e milioni di cartoline, calendari e santini. Sua Santità vi appare con un'espressione indulgente, ma anche appena appena smarrita. Appare innanzi tutto una persona umanissima, senza per questo perdere quella forza carismatica necessaria al Capo della Chiesa.Un risultato che è andato ben oltre le migliori aspettative e che tuttavia fu frutto del caso.
Avevo passato tutta la notte a lucidare il legno della poltrona e a spolverarne l'imbottitura con una spazzola speciale. Sapevo che nella foto si sarebbe visto ben poco di questo mio lavoro, ma era importante che il modello, sedendosi, si sentisse quasi intimorito dalla bellezza del seggio: quel minimo di soggezione avrebbe stemperato l'atteggiamento statuario che sempre hanno i grandi personaggi quando debbono restare immobili davanti all'obiettivo della macchina fotografica. L'immagine fissa e ravvicinata di un volto -- soloi fotografi lo sanno -- scopre i segreti più profondi e autentici di un'anima e al Papa avrebbe sicuramente giovato trasmettere un lieve senso di smarrimento e di fragilità utile a rivelare la sua dolcezza. La foto doveva cogliere nel pontefice la familiarità e insieme la trascendenza. E la figura più adatta, più simbolica a cui ispirarsi è sempre quella del buon padre: un uomo che ama i suoi figli fino al sacrificio personale e che nello stesso tempo è inflessibile sui principi morali e sull'educazione, pronto sempre a perdonare pur non risparmiando meritate punizioni.
Cosí volevo fotografare il Papa, come un genitore capace di infondere sicurezza in famiglia, austero, irreprensibile, ma non del tutto al riparo da piccole debolezze sentimentali, da una innocente e sorridente ironia. Consumai prima olio di gomito e poi mi concentrai sulla luce. Volevo un viso luminoso e per questo preparai uno sfondo solare, ma non troppo, stavo attento ad evitare un qualsiasi segnale di inquietudine metafisica. La stessa poltrona l'avevo scelta in modo che il viso del Papa risultasse più alto della spalliera. Ma la spalliera doveva vedersi, e anche la porzione di un bracciolo, perché non si avesse l'impressione che il Vicario di Cristo era seduto su uno sgabello.
Piazzai la macchina fotografica, preparai le lastre e finalmente, chiuso lo studio, quasi all'alba, me ne andai a letto. Sapevo che non avrei dormito saporitamente: la foto da scattare la mattina dopo doveva essere il mio piccolo miracolo. Purtroppo durante quelle ore di insonnia, come del resto mi aspettavo, riemerse in me, piano piano, sicuramente per un fatto nervoso, un antico male. Minuto dopo minuto sentivo crescere a dismisura quel maledetto fuoco che partendo dal centro della pancia punta diritto verso l'orifizio anale. Le emorroidi esplosero in tutta la loro virulenza, sembravano voler bruciare perfino le lenzuola. Borse di ghiaccio, impacchi, unguenti, linimenti, creme, pezze bagnate servivano a poco. Mi giovava, ma solo per qualche minuto, esporre il sedere nudo alle correnti d'aria proprio davanti alla finestra spalancata. Dopo, perè, per contrappasso, le viscere si vendicavano e il dolore raddoppiava. Allora cercavo di fantasticare, provavo a cantare qualcosa, ma stupidamente, senza accorgermene, intonavo inni religiosi. Cosí il Papa usciva dalla porta e rientrava dalla finestra. Quando capii che avevo preso la strada sbagliata lasciai le canzoni e cominciai a recitare le poesie di Giosuè Carducci.
Insomma quelle poche ore che mi separavano dall'incontro con Sua Santità furono una vera e propria tortura. Le labbra mi sanguinavano per colpa dei morsi. Con uno sforzo che oggi senza esagerare posso chiamare sovrumano, mi rivestii inzeppando le mutande di garze e di bende, tanto che non entravo nei calzoni. Alla fine mi sembrava di essere a cavallo d'un cuscino. Abbottonai a fatica gli straccali, infilai la giacca e, reggendomi ai muri, riaprii lo studio.
Il Papa, accompagnato da cardinali e monsignori, giunse puntuale; indossava i paramenti pontificali, con il luminoso triregno sul capo e il pallio intorno alle spalle; nella mano destra aveva l'anello piscatorio. Vide la poltrona e andò subito a sedersi poggiando le mani sui braccioli. Io notai subito che aveva unghie non perfette, un po' bombate ma che potevano risultare sgraziatissime: erano una seria minaccia a tutta la foto visto che nel taglio che avevo stabilito quelle mani dovevano stare al centro. Chiesi gentilmente se potevamo restare soli e il Papa, dopo avermi squadrato con un po' di diffidenza, con un gesto ordinò agli accompagnatori di aspettare fuori.
Rimanemmo io e Lui. Fissavo il modello dal punto di vista dell'obiettivo. Ma appena mi fermavo un solo istante il dolore al sedere si faceva così acuto chemi sentivo svenire. Allora mi muovevo di qua e di là e, con la punta delle dita, disponevo al meglio le pieghe della veste e del rocchetto, l'inclinazione delle ginocchia, l'incrocio delle maniche, la posizione precisa del copricapo. Con un pettine, sempre chiedendo scusa, regolavo le basette e i peli delle mani. Speravo che tanta concentrazione placasse le punture al bassoschiena, invece passava il tempo e mi sentivo morire. Dagli occhi mi uscivano le lacrime e io, nel tentativo di nascondere il mio tormento, mi slanciavo in sorrisi esagerati. Al punto che il pontefice si sentì in doveredi chiedermi come stavo. Gli risposi subito che ero soltanto un po' emozionato.
Finalmente, sistemate a puntino le luci, infilai il capo sotto il panno nero e puntai l'occhio nell'obiettivo. Avevo il viso zuppo e il sudore cadeva a gocce sul pavimento. Vedevo il Papa, a testa sotto, che mi guardava pienodi perplessità. Mi disse di calmarmi e di fare una bella fotografia. Allora, poiché avevo la faccia nascosta, mi feci coraggio e, forzandomi a un tono mondano, quasi sorridente, confessai che ero preda di un improvviso quanto terribile attacco di emorroidi: "Sapesse che dolori!", dissi con mezza voce. E proprio in quel momento spinsi il pulsante. La foto era fatta.
Il pontefice si alzò e senza dire neanche una parola, ancora stordito, se ne andò. Io corsi subito a liberarmi dei miei stracci insanguinati. Riempii un secchio di ghiaccio e vi sedetti sopra per una buona mezz'ora. L'indomani ogni dolore erascomparso. La foto, dopo essere passata di mano in mano nell'entusiasmo degli impiegati curiali, fu recapitata al Papa che ne fu compiaciuto: era un vero e inaspettato capolavoro. Avevo vinto la mia battaglia, quella foto la consegnavo direttamente alla Storia. Lo sguardo intenso di Sua Santità è ilsegreto di quello straordinario ritratto. Solo io sapevo che nel precisomomento dello scatto egli stava pensando: "Ma guarda tu... proprio oggi a questo gli dovevano venire le emorroidi!"