"L'uovo di Colombo", in La gente, Torino: Einaudi, 1993, pp.74 sgg.
Era il 1993. Si viaggiava in treno e per andare da Roma a Los Angeles si usavano ancora quei bestioni a reazione che restavano in cielo per la bellezza di dodici ore. Era ancora l'epoca dei grandi sarti. La politica, dopo aver visto ministri in discoteca, parlamentari a Malindi e comunisti a Capalbio, faceva la spola tra le patrie galere e la televisione, dove gli italiani vedevano morire la vecchia Repubblica. Nello sport e negli spot furoreggiava sempre tal Berlusconi, circondato da pupattole e da sottoposti vestiti come lui. Volava Senna sulla sua carcassa, mentre a Mosca non si sapeva che pesci prendere. Tra Nord e Sud erano ancora rose e fiori.
Bei tempi passati, pieni di vitalità, d'avventura, di grandi sconvolgimenti della storia. L'Italia, soffocata da una intera catena montuosa di debiti e di truffe allo Stato, faceva parte dei sette, otto Paesi più ricchi del mondo. Dalle frontiere sfondate entravano frotte di disperati di tutti i colori. S'accampavano dove potevano mentre accanto a loro, a tutta velocità, sfrecciavano le Ferrari dei nuovi ricchi. I figli non andavano di moda, nessuno li faceva più: il piacere del danaro aveva svuotato le case. Si riempivano solo la sera davanti alle immagini pallide e un po' disfatte della televisione (non c'era ancora neanche l'alta definizione). Le donne lavoravano quasi tutte e gli uomini avevano ognuno due, tre lavori. Solo i vecchi se ne restavano fra le quattro mura e d'estate ne morivano a grappoli sulle panchine sotto casa. Giapponesi, americani, tedeschi, australiani scorrazzavano in mutande da Palermo a Venezia e con le loro ciabattelle solcavano le antiche strade romane e medievali.
Bene, in quell'Italia ancora felice e rubiconda viveva un omino appartato e silenzioso. Nessuno lo conosceva, nessuno si curava di lui. Per strada lo urtavano tutti perché non lo vedevano. Si chiamava Demetrio Trivelli. Sì proprio lui.
Il suo immenso talento sbocciò proprio quell'anno. Ma ci vollero ben tre quarti di secolo perché qualcuno scoprisse l'ingegno di quest'uomo che molti studenti faticano ad immaginare piccolo e grigio. Quel che oggi a tutti appare come l'uovo di Colombo e che a Demetrio Trivelli costò sette camicie, all'epoca era assolutamente impensabile, del tutto estraneo alla mente umana. Basta dire che in quei tempi lontani nessuno sapeva nemmeno perché si nasce e si muore.
Forse il segreto di Demetrio Trivelli, la sua capacità di immaginare l'inimmaginabile, di vedere ciò che era davanti agli occhi di tutti e che nessuno vedeva, va cercato nel suo essere un uomo comunissimo. La natura aveva dotato il suo genio di una prerogativa che all'epoca tutto era tranne che una virtù: quella di assorbire fino all'ultima goccia le mitologie del suo tempo. Demetrio non si difendeva da nulla, era una specie di spugna. Si lasciava travolgere dalla cultura corrente senza opporre mai, neanche per un momento, una sua idea del mondo. Negli anni Novanta l'idealismo religioso e l'edonismo pagano trovarono un loro punto di identificazione: la ricerca del piacere individuale si era diffusa e accresciuta al punto da invadere l'antichissimo anelito verso la trascendenza. In un certo senso il naturale richiamo all'orgasmo, che è individuale, coincise con la vocazione alla palingenesi mistico-religiosa che sopravviveva nella cultura collettiva. Demetrio Trivelli, insomma, fu il primo uomo nel quale queste due forze si concretizzarono in un'unica identità. L'emozione che provava nell'acquistare un magnifico paio di scarpe non aveva nulla da invidiare alla pietas del sacerdote nel momento in cui spezza l'Ostia. Con Demetrio Trivelli l'uomo cancellava l'eterno dualismo tra ius e fas, tra bene e male, tra alto e basso. Davanti a Demetrio Trivelli si aprivano orizzonti inesplorati.
Un piccolissimo episodio della sua vita, che si può ritrovare nei Diari, quasi sempre trascurato nella chilometrica bibliografia su Demetrio Trivelli, mette a nudo questa sua particolare attitudine ad identificarsi totalmente col suo tempo.
Era la fine dell'estate del 1993. Esistevano all'epoca, in quasi tutto il mondo, locali chiamati McDonald in cui si poteva mangiare a qualsiasi ora del giorno. Servivano polpette di carne chiamate hamburger, accompagnate da patate tagliate a listarelle e fritte nell'olio, il tutto condito con una disgustosa pappetta rossa estratta dalla conserva di pomodoro. Demetrio Trivelli quel giorno non aveva l'orologio ma era stato preso da fame improvvisa (quanto si è scritto dei suoi attacchi di bulimia!). Entrò nel locale e vide che era vuoto. Non era dunque quella l'ora più opportuna per mangiare visto che non lo faceva nessuno. Tuttavia era preso dai morsi della fame. Non stette troppo a sottigliare, ordinò molte polpette e le divorò a grandi bocconi. Aveva deciso di uscir fuori dalle abitudini, di trasgredire per una volta una norma secolare. Niente di rivoluzionario, per carità, anche se a quei tempi era molto difficile sorprendere persone sane di mente a pranzare la sera e a cenare la mattina. Demetrio Trivelli mangiava le polpette, sotto lo sguardo indifferente degli inservienti, con la coscienza tranquilla. Ma Demetrio Trivelli non sapeva che in realtà quella era l'ora del pranzo e che la strada dove sorgeva il locale era interrotta sia a destra che a sinistra per lavori stradali. Gli operai (si chiamavano così quelli che aggiustavano i marciapiedi) l'avevano chiusa mentre lui, passeggiando pigramente lungo il marciapiede, si era fermato ad ammirare, una dopo l'altra, le belle vetrine dei negozi. Se non che, ingoiata l'ultima polpetta, le barriere dei lavori in corso furono rimosse e d'improvviso entrarono da McDonald centinaia di giovani affamati. Era l'ora del pranzo e quelli si misero in fila di fronte a ogni inserviente per ordinare le polpette. Demetrio Trivelli, senza nemmeno accorgersene, come gli fosse tornata d'improvviso la fame, si accodò anche lui e mandò giù altre porzioni di quelle polpette, che certo non dovevano essere una meraviglia di bontà. Quando ebbe finito di ingozzarsi per la seconda volta, si asciugò le mani con il tovagliolo di carta e fece per uscire. Ma si fermò subito perché l'aver mangiato insieme con tutta quella gente gli fece nascere il desiderio di fare qualcosa che gli altri non facevano: un desiderio che egli stesso nel suo diario paragona a quello sessuale. Veramente lui quella trasgressione l'aveva già consumata quando aveva mangiato le prime polpette in solitudine, convinto di pranzare in un'ora non canonica. Ma adesso che aveva capito com'erano andate veramente le cose, si rese conto di essere stato illusoriamente trasgressivo avendo mangiato proprio all'ora di pranzo. Cosa fece quindi? Rientrò, ordinò di nuovo altre polpette e patatine e se le mangiò con grande godimento dello spirito. Adesso sì, stava facendo qualcosa che agli altri neanche passava per la mente.
Questo aneddoto rivela che Demetrio Trivelli aveva ingordamente avuto tutto: sia la trasgressione che il conformismo. Si sentiva in pace con l'una e con l'altro. E in più aveva reso felice la pancia visto che quelle strane polpette gli piacevano moltissimo e ne avrebbe mangiate altrettante se in quell'epoca non fosse stato vietato dalle buone maniere. Buone maniere che comunque Demetrio Trivelli una volta adottava e un'altra tradiva con la medesima, quasi delirante, soddisfazione. E tanta capacità di passare dal giusto all'ingiusto, dal buono al cattivo, dal bello al brutto, portava alla ribalta per la prima volta sulla faccia della terra l'immagine dell'uomo moderno, perfetto come un punto. Solo così si capisce perché proprio Demetrio Trivelli abbia potuto fare quella grande, fondamentale scoperta di cui oggi noi tutti godiamo. In fondo, a pensarci bene, Demetrio Trivelli ha scoperto la cosa più ovvia del mondo.