"La foto di Garibaldi", Il Messaggero, 19 luglio 1991, p. VII.
Avevo passato tutta la notte a lucidare i legni dellapoltrona e a strigliarne l'imbottitura con una spazzola speciale. Sapevo che nella foto si sarebbe visto ben poco diquesto mio lavoro, ma era importante che il modello, sedendosi, si sentisse quasi intimorito dalla bellezza del seggio: quel minimo di soggezione avrebbe stemperato l'atteggiamento statuario che sempre hanno i grandi personaggiquando debbono restare immobili davanti all'obiettivo dellamacchina fotografica. L'immagine fissa e ravvicinata di un volto -- solo i fotografi lo sanno -- scopre i segreti più profondi di un'anima e al Generale avrebbe sicuramente giovatotrasmettere quel lieve senso di smarrimento e di fragilitàutile a rivelare la sua umanità.
La foto doveva cogliere in Giuseppe Garibaldi qualcosa di familiare e insieme di carismatico. E la figura più adatta, più simbolica a cui ispirarsi è sempre quella del buon padre: un uomo che ama i suoi figli fino al sacrificio personale e che nello stesso tempo è inflessibile sui principi morali e sull'educazione, pronto sempre a perdonare pur non risparmiando meritate punizioni.Cosí volevo fotografare Giuseppe Garibaldi, come un genitore capace di infondere sicurezza in famiglia, austero, irreprensibile, ma non del tutto estraneo alle piccole debolezze sentimentali, ai piccoli sorrisi.
Consumai olio di gomito tutta la notte, poi mi concentrai sulla luce. Volevo un viso luminoso e per questo preparai uno sfondo buio, ma non troppo, stavo attento ad evitare un qualsiasi segnale di inquietudine. La stessa poltrona lascelsi in modo tale che il viso di Garibaldi risultasse piùalto della spalliera. Ma la spalliera doveva vedersi, e anche la porzione di un bracciolo, perché non si avesse l'impressione che l'eroe dei due mondi fosse seduto su uno scannetto.
Piazzai la macchina fotografica, preparai le lastre e finalmente, chiuso lo studio, quasi all'alba, me ne andai a dormire. Sapevo che non avrei dormito saporitamente: la foto che dovevo scattare la mattina dopo sarebbe stata la mia piccola Spedizione dei Mille. Nel mondo della fotografia tanto valeva la mia impresa. Purtroppo durante quelle ore di insonnia, come in fondo mi aspettavo, riemergeva in me, piano piano, sicuramente per un fatto nervoso, un antico male.Minuto dopo minuto sentivo crescere a dismisura quel maledetto fuoco che partendo dal centro della pancia punta diritto verso l'orifizio anale. Le emorroidi esplosero in tutta la loro virulenza, sembravano voler bruciare perfino le lenzuola. Borse di ghiaccio, impacchi, unguenti, beveroni,mastici, pezze bagnate servivano a poco. Mi giovava, ma solo per qualche minuto, esporre il sedere nudo alle correntid'aria proprio davanti alla finestra spalancata. Dopo, però, per contrappasso, le viscere si vendicavano e mi raddoppiavano il dolore. Allora cercavo di pensare ad altro, provavo a cantare qualcosa, ma stupidamente, senza accorgermene, intonavo canti patriottici. Cosí Garibaldi usciva dalla porta e rientrava dalla finestra. Quando capii che avevo preso la strada sbagliata lasciai le canzoni e cominciai a recitare le poesie di Giosuè Carducci.
Insomma quelle poche ore che mi separavano dall'incontro con Giuseppe Garibaldi furono una vera e propria tortura. Le labbra mi sanguinavano a forza di morsi. Con uno sforzo che oggi senza esagerare posso chiamare sovrumano, mi rivestii inzeppando le mutande di garze e di bende, tanto che non entravo nei calzoni. Alla fine mi sembrava di essere a cavallo d'un cuscino. Abbottonai a fatica gli straccali,infilai la giacca e, reggendomi ai muri, riaprii lo studio.
Giuseppe Garibaldi, accompagnato dai suoi fedeli più intimi, giunse puntuale. Lo vidi e sentii un rivolo caldoscivolare già verso i calzini. Il Generale indossava un poncho a righe orizzontali, il fazzoletto intorno al collo annodato sul davanti. E da sotto quel panno suggestivo usciva no le maniche pesanti di una giaccona larga, tipo vestaglia. In testa, sulle ventitré, un buffo cappello che faceva pensare a una torta di cioccolata con ghirigori di zucchero d'orzo. Si poggiava a un bastone scuro, intarsiato. Vide la poltrona e andò subito a sedersi poggiando entrambe le mani sul bastone. Io notai subito che aveva unghie infotografabili, bombate e sgraziatissime: erano una seria minaccia a tutta la foto visto che nel taglio che avevo stabilito quel le mani dovevano stare al centro. Chiesi gentilmente se potevamo restare soli e il Generale, dopo avermi squadrato con un po' di diffidenza, con un gesto ordinò agli amici di aspettare fuori.
Rimanemmo soli. Io fissavo il modello dal punto di vista dell'obiettivo. Ma appena mi fermavo un solo istante il dolore al sedere si faceva cosí acuto che mi sentivo svenire. Allora mi muovevo di qua e di là e, con la punta delle dita, disponevo al meglio le pieghe della mantellina, l'inclinazione del bastone, l'incrocio delle mani, la posizionedel cappello. Con un pettine, sempre chiedendo scusa, pettinavo qua e spettinavo là quel gran batuffolo di peli che avvolgeva il viso del Generale. La barba era bianca e nera, ma per fortuna a macchie ben distribuite dalla natura. Speravoche tanta concentrazione placasse le punture al bassoschiena, invece passava il tempo e mi sentivo morire. Dagli occhi mi uscivano le lacrime e io, nel tentativo di riequilibrare la mia immagine agli occhi del Generale, mi slanciavo insorrisi esagerati e inquietanti. Fino al punto che Garibaldi si sentí in dovere di chiedermi come stavo. E io gli risposi subito che stavo benissimo, che ero soltanto un po' emozionato.
Finalmente infilai il capo sotto il panno nero e puntai l'occhio nell'obiettivo. Avevo il viso zuppo e il sudore cadeva a gocce sul pavimento. Vedevo il Generale che, a testasotto, mi guardava pieno di perplessità. Mi disse di non essere emozionato e di fare una bella fotografia. Allora, poiché avevo la testa nascosta, mi feci coraggio e, forzandomi in un tono mondano, quasi sorridente, confessai che ero preda di un improvviso quanto terribile attacco di emorroidi. "Voi che avete passato tutta la vita sulla sella di un cavallo potete capirmi signor Generale. Sono dolori!" E proprio in quel momento, senza rendermene conto, spinsi il pulsante. La foto era fatta.
Il Generale si alzò e senza dire neanche una parola,ancora stordito, se ne andò. Io corsi subito a liberarmi dei miei stracci insanguinati. Ordinai una colonna di ghiaccio e vi sedetti sopra per una buona mezz'ora. L'indomani ogni dolore era scomparso. La foto, passando di mano in mano nell'esultanza e nell'entusiasmo di tutti fu recapitata a Giuseppe Garibaldi che ne fu compiaciuto: era un vero e inaspettato capolavoro. Avevo vinto la mia battaglia, quella foto la consegnavo direttamente alla Storia. Lo sguardo cosí intenso del Generale è il segreto di quella straordinaria fotografia. Solo io sapevo che nel preciso momento delloscatto egli stava pensando: "Ma guarda tu... proprio oggi aquesto gli dovevano venire le emorroidi!"